venerdì 25 novembre 2011

Giorgio Vasari e l'Incoronazione della Vergine alla Badia di Arezzo


Giorgio Vasari
(Arezzo 1511 - Firenze 1574)

Incoronazione della Vergine 1567

Olio su tavola, cm. 500x400 (con la cornice)
Arezzo, chiesa Badia delle Sante Flora e Lucilla

Nel libro delle Ricordanze di Vasari, fol.27v si legge: « Ricordo, come nel resto di questo anno (1567) si finj una tavola di braccia 7 alta: drentovi gli apostoli, che stanno a vedere la Nostra Donna andata in cielo, et Xo (Cristo) lincorona; che fu fatta per Filippo Salviati et oggi data per condursi in Arezzo in pieve alla cappella di messer Nerozo Albergotti. Laquale la pagata scudi dugento in Arezzo per ser Pietro, mio fratello, a Girolamo Camurini (in altre trascrizioni: Girolamo Camaiani) scudi 200 ».
Altre informazioni che riguardano lo stato di preparazione dell'opera, si traggono da alcune lettere inviate da Vasari a Vincenzo Borghini nell'estate del 1566, nelle quali lo mette al corrente su alcuni lavori che ha in studio e precisamente:
Il 31 luglio 1566 riferisce infatti che l'abate della Badia fiorentina ogni giorno gli rammenta le tavole che gli deve consegnare, e che "quella (la tavola) di Filippo è in casa mia (a Firenze) che s'ingessa"; il 18 agosto successivo aggiunge che "Batista", in realtà Giovan Battista Naldini, suo allievo, in quei giorni è al lavoro nel suo studio, ha, "ateso a bozzare la tavola di Filippo Salviati, che è finita".
Si comprende, quindi, che a essere finito è soltanto l'abbozzo dell'opera, ossia la prima vera mano data sulla tavola al fine di iniziare l'opera, tanto è vero che il 3 settembre seguente Vasari scrive nuovamente al Borghini, dicendogli che quando rientrerà a Firenze da Poppiano dove si trova, tra le altre opere in lavorazione nel suo studio (anche per lo stesso Borghini), potrà vedere "la tavola di Filippo bozzata".
La tavola di Filippo Salviati doveva essere posta nel monastero domenicano delle suore di San Vincenzo Ferrer a Prato, in particolare su di una parete interna del coro, struttura caratterizzata da una sala rettangolare coperta con volta lunettata su peducci in arenaria, fatta costruire dal committente tra il 1558 e il 1564 su progetto di Baccio Bandinelli, quest'ultimo artista di riferimento di Vasari.

Di particolare interesse assumono le notizie sul monastero. Fondato nel 1503, crebbe di prestigio intorno al 1535 attraverso suor Caterina de Ricci, poi divenuta Santa, che sulla scorta del messaggio savonaroliano aiutata anche da uno dei suoi fautori come appunto Filippo Salviati, progressivamente accrebbe l'opera di spiritualizzazione del complesso monastico, liberandolo dai condizionamenti sociali e politici del tempo.
(su Savonarola rimando su quanto ho detto il 19 novembre riguardo la Deposizione di Vasari alla SS. Annunziata)   
Non sappiamo di preciso il perché la tavola non fu mai ritirata dal committente, tanto più se poi dieci anni dopo (1576), alla morte di Filippo (1572), i figli Averardo e Antonio per volontà testamentarie del padre, inviarono al monastero un dipinto con lo stesso soggetto, fatto dal fiorentino Michele delle Colombe.
Nel momento in cui ci approcciamo ad un' opera d'arte è interessante comprendere, come siano importanti i collegamenti e i passaggi di mano che a volte esse compiono dal momento della loro nascita, ad esempio qui assume un certo rilievo la fittissima correlazione di personaggi altolocati o gravitanti all'interno della famiglia dell'artista.
Difatti come si evince dal documento, la tavola fu donata da Vasari al fratello Pietro e inseguito acquistata per duecento scudi dal giurista aretino messer Nerozzo di Giovanni di Antonio Albergotti per la sua cappella di famiglia nella Pieve di Santa Maria ad Arezzo nel 1570, ponendola in fondo alla navata sinistra, in cornu Evangelii.
Nerozzo non era altro che il padrino del nipote di Giorgio Vasari, suo omonimo e figlio di suo fratello Pietro nato nel 1562. A lungo rettore della Fraternita dei Laici, alla morte di Vasari fu suo esecutore testamentario.
I lavori per il coro e l'altare Albergotti in Pieve ebbero inizio alla fine di novembre del 1570 e subirono immediatamente un'interruzione perché nel disfare il vecchio altare per far posto a quello nuovo progettato su disegno di Vasari per Nerozzo, furono rinvenuti i resti di San Donato, evento al quale potrebbe alludere la presenza del patrono nel dipinto.
Nel 1572 riprendono i lavori di ammodernamento della Pieve secondo i dettami della Controriforma e Vasari non solo realizza l'altare Albergotti ma anche la cappella per la Fraternita, il cui aspetto grandioso è riscontrabile nella sezione longitudinale della chiesa prima dei restauri ottocenteschi.   
L’Incoronazione (fig.1), rimase in Pieve fino al 1865 quando fu spostata in Badia assieme all’Altare maggiore (anch’esso di Vasari), in occasione del radicale restauro della Pieve, che nel tentativo di ripristinarne l’aspetto medievale, la privò di tutte le opere d’epoca successiva che furono spostate o distrutte.
Iconograficamente l'opera in questione propone: nella parte bassa la copia che deriva dall'"Assunzione della Vergine" Panciatichi di Andrea del Sarto in Palazzo Pitti, già studiata da Vasari nel 1539, e trasferita poi nella pala omonima di Monte San Savino. Mentre, come asserisce la storica Kristina Hermann Fiore, dipendente in quella superiore, dal soggetto con la "Madonna incoronata dalla Trinità" (fig.2), tema iconografico quest'ultimo non comune nel Cinquecento fiorentino ma derivante da una delle incisioni della "Vita di Maria" di DÜrer, diffuse nelle copie dell'incisore Marcantonio Raimondi.

"...l'anno 1511 egli (Dürer) fece in venti carte tutta la vita di nostra Donna tanto bene che non è possibile per invenzione, componimenti di prospettive, casamenti, abiti e teste di vecchi e giovani far meglio...". Proprio con queste parole Vasari descrive il lavoro del nordico giudicandole con tale magnificenza d'invenzione.

Accostando tali xilografie è evidente che nella composizione corrispondono: la bipartizione del quadro e la connessione delle due scene attraverso la nuvola che arriva fino a metà altezza del quadro e la disposizione spaziale del sarcofago con i tre protagonisti di spalle rispetto all'osservatore. L'atteggiamento dell'apostolo in preghiera a sinistra è ripetuto quasi fedelmente a quella realizzata da Dürer; segue dopo un intervallo, l'apostolo dai piedi nudi inginocchiato e la scena si chiude col terzo apostolo al margine destro. Sia la vicinanza ai bordi del quadro, sia la luce intensa proveniente da destra che colpisce i protagonisti, sono analoghe. In più, come è menzionato nella monografia della Barocchi, il Vasari in questo quadro da anche rifiniture nordicheggianti alle barbe ed ai capelli delle figure rappresentate.



Fig.2
Fig.1
 
E' da sottolineare che Vasari riuscì sapientemente ad amalgamare l'esempio dureriano senza sensibili conseguenze per il suo stile, chiose che Vasari scrisse nella seconda edizione delle Vite a proposito di Pontormo, in luogo di una presa di coscienza riguardo al pericolo da parte degli artisti di seguire eccessivamente la maniera dureriana, la quale era affine a certe tendenze spirituali del primo manierismo.

Partendo dalla tavola del periodo giovanile (1532) con Cristo portato al sepolcro eseguita per Ippolito de' Medici dove appaiono ancora forti gli elementi dureriani, con la successiva Deposizione dalla Croce all'Annunziata di Arezzo del 38' dove permangono evidenti accenti nordici; se entrambe le compariamo con la Pala Albergotti eseguita nel 1567, risulta evidente come la lezione del maestro di Norimberga venga in quest'ultima del tutto assimilata, dove i richiami diventano meno rigidi fino ad essere del tutto sciolti in luogo di uno stile più personale e quindi autonomo.
Il fatto poi che Vasari si servì destramente dell'opera di Dürer non rimane di certo un caso isolato nell'arte italiana del Cinquecento, ma s'inquadra in una attitudine generale da parte degli artisti italiani iniziando da Raffaello, Dosso Dossi, Lotto, Romanino, Andrea del Sarto, Pontormo o artisti gravitanti nella cerchia di Tiziano.
La pala d'altare è costituita da più tavole di diverse dimensioni incastonate entro un'unica struttura, che il Vasari, cogliendo forse lo spunto dall'arte veneta e da Tiziano in particolare, aveva già utilizzato per l'altare della propria cappella un tempo nella Pieve di Santa Maria e ora anch'essa alla Badia. Ai lati della pala centrale sono san Francesco e san Donato mentre entro otto esagoni ricavati nella parte centinata della cornice, forse cogliendo lo spunto dall'iconografia mariana dei Sette dolori o della Madonna del Rosario, il Vasari inserisce altrettanti volti di sante martiri. 

(da sinistra con i loro attributi iconologici: Caterina da Siena, Apollonia, Agata, Orsola, Caterina d'Alessandria, Lucia, Margherita, e Maddalena).

La ricca cornice del dipinto includente i Santi Donato e Francesco e la serie di Sante Martiri entro ottagoni è certamente posteriore al quadro e, con ogni probabilità, fu eseguita dopo l'acquisto di esso da parte della famiglia aretina degli Albergotti: viene, infatti, ricordata da Marcantonio Vasari nel 1571 nelle aggiunte alle Ricordanze di Giorgio.
Il restauro concluso nel 2008 da parte dell'istituto R.i.c.er:c.a  ha messo in luce che la monumentale Pala Albergotti, una tra le opere meno indagate di Vasari, è forse l'unico dipinto importante di Arezzo che non sia stato già restaurato nell'era del restauro moderno, cioè la seconda metà del Novecento.
Motivo d'interesse è la segnalazione da parte delle restauratrici della presenza nel supporto di numerosi schizzi tracciati a pennello, che in parte sembrano pertinenti alla fase di realizzazione dell'opera. Si tratta di numeri, anche incolonnati in somme, piccole teste, linee e scarabocchi. Uno schizzo, privo di qualità artistiche, potrebbe far pensare ad una prima idea per la sistemazione in cornice della tavola centrale con l'aggiunta delle tavolette nella centina.
Infine colature bruno-giallastre, sono emerse specialmente nella parte inferiore destra, in corrispondenza di alcune figure di Apostoli sempre a partire da campiture bruno molto scuro ad esempio nella figura inginocchiata davanti al sepolcro e quella in piedi a destra, il cosiddetto autoritratto di Vasari.
                                                      © Barbara Rossi




Per le fonti bibliografiche ho consultato:

G.F. Gamurrini, Le opere di Giorgio Vasari in Arezzo, Arezzo, 1911
K. Frey, Der Literarische Nachlass Giorgio Vasaris, Müller, München, 1930
P. Barocchi, Vasari Pittore, Club del Libro, Barbèra editore, Milano, 1964
G. Vasari, Le vite de'più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, 6 voll., Firenze 1966-1987
Il Vasari, storiografo e artista: atti del Congresso internazionale nel IV centenario della morte, Firenze, Grafistampa, 1976
M. Mercantini, La Pieve di Santa Maria. Tumultuose vicende di un restauro ottocentesco, Città di Castello, Arezzo,1982
S. Bardazzi - E.Castellani, Il monastero di San Vincenzo a Prato, Prato, Edizioni del Palazzo,1982 
R.Roani Villani, Un'eco della raffaellesca "Incoronazione della Vergine" di Monteluce in un dipinto del Vasari nella Badia aretina,sta in Paragone, 407, 1984
Dal  Rosso a Santi di Tito: la Maniera moderna nell'aretino, Marsilio,Venezia, 1994
Arte in terra d'Arezzo: il Cinquecento, Edifir, Firenze, 2004
L'ingegno e la mano. Restaurare il mai restaurato, Il restauro della Pala Albergotti di Giorgio Vasari nella Badia delle Sante Flora e Lucilla di Arezzo, Edifir, Firenze, 2008     

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