Fino al 28 febbraio 2016 al Palazzo dei
Diamanti di Ferrara si tiene un’interessante mostra su Giorgio de Chirico
intitolata Metafisica e Avanguardie.
Si tratta di un’esposizione di opere eseguite tra 1915 e il 1919, il cosiddetto
periodo metafisico dell’artista, quando il pittore, ritornato da Parigi,
soggiornò per un breve tempo a Ferrara. Il percorso espositivo corredato da
approfondite didascalie, si snoda attraverso un interessante carteggio tra
artisti e poeti, esemplare la corrispondenza con il poeta Guillaume
Apollinaire. In effetti de Chirico e non solo, ma anche l’ambiente parigino,
crearono vicendevolmente una sorta di osmosi con alcuni personaggi famosi, come
le ricerche compiute in quegli anni da Pablo Picasso e dei cubisti, dal critico
d’arte e pittore Maurice Raynal o dal mercante d’arte Paul Guillaume, colui che
intratteneva affari anche con altri artisti italiani come Amedeo Modigliani. Da
quell’esperienza de Chirico ne approfondirà alcuni richiami, sciogliendoli con
echi desunti dalla pittura di due grandi artisti: il poeta e pittore Gustave
Courbet e dei suoi paesaggi, per il quale nutriva una profonda ammirazione e ancor
prima con i testi pittorici ripresi dal tedesco Arnold Böcklin.
La mostra pone in evidenzia alcuni temi cardine
della concezione dechirichiana: quello dell’impostazione architettonica, di
chiara valenza quattrocentesca a tratti venata da un tormentato classicismo e la
trasformazione metafisica del luogo come tòpos recondito. Quest’ultimo
rielaborato anche con la complicità della stessa Ferrara che, con le sue
prospettive si adattava perfettamente alla visione enigmatica del reale di cui
stava indagando de Chirico. I paesaggi di città immaginarie sembrano quasi sorti
davanti all’artista durante un sogno, nei quali gli elementi fantastici si
intrecciano con i ricordi delle cose vedute e vissute e dove la realtà è
volontariamente trasfigurata.
L’altro tema fa luce sul rapporto che de Chirico
ebbe con Carlo Carrà (cfr.le opere olio su tela ascritte al 1917 del Cavaliere occidentale e Camera incantata) durante il ricovero di
entrambi, per malattie nervose, all’ospedale militare di villa del Seminario
nei dintorni di Ferrara. Proprio in questo frangente i due dipinsero le opere
tra le più importanti della loro vita. All'epoca
del periodo ferrarese infatti (giugno 1915-1918) de Chirico realizzò alcuni dei
suoi capolavori assoluti, come Il trovatore (1917,
olio su tela; Milano, collezione Jucker), Ettore e Andromaca (1917,
olio su tela; Milano, coll. privata), Le Muse inquietanti (1918,
olio su tela; Milano, coll. privata). Vale la pena soffermarsi di fronte alle
suggestive scene di addio delle opere raffiguranti: Ettore e Andromaca, o in quelle intitolate: La rivolta del savio (1916), Natura
morta evangelica (1918), dove sono dipinti tre biscotti con la dicitura: superior petit beurre biscuit che paiono
quasi strizzare l’occhio, benché con altro significato, alle successive zuppe
di pomodoro serigrafate di Andy Warhol; non per niente nel 1985 i due si
confronteranno nella mostra romana intitolata Warhol verso De Chirico per la
cura di Achille Bonito Oliva. Nell’opera intitolata La malinconia della partenza (1916), appare chiara la metafora del
viaggio, unita alla malinconia della separazione e l’abbandono degli affetti e
delle cose care. Influssi dadaisti e surrealisti, anche se de Chirico non
apparterrà mai a questa corrente, ma ne condizionerà inevitabilmente gli
artisti aderenti; influiscono e partecipano a questo periodo della sua carriera
artistica, le opere in mostra di Salvador Dalì, Max Ernst e una riuscita
composizione di René Magritte, un olio su tela dal titolo La Condition humaine del 1933.
Concludono la
mostra i famosi “mannequins”. Con queste immagini de Chirico ci condurrà
verso l’ultimo periodo in cui la sua arte subirà una brusca svolta, simile a
quella che osserviamo nel passaggio dalle costruzioni puramente spaziali degli
anni 1910-13 a quelle “oggettive” del periodo metafisico: l’interesse
dell’artista si sposterà quindi dal momento spaziale al momento del volume
plastico; la figura (“l’oggetto”) ridiventa l’asse della composizione;
l’artista ricorrerà di nuovo al metodo del “rendere strano”. La figura d’eroe
senza viso (“Ricordi d’Iliade”) con
lo strano ammasso di enigmatiche forme geometriche e architettoniche nella
regione del torso, attesta eloquentemente il dominio del nuovo sistema. Il
misterioso mondo dei “mannequins” riprende i suoi diritti, rivoluzione che
nell’arte di de Chirico coincide come abbiamo detto, con il tempo parigino.
Nelle opere “Le
muse inquietanti (1918)” e “Il
Trovatore (1917)”, un soffio di tragedia pervade queste figurazioni,
toccando momenti di alto pathos. Occorre indicare come una tra le più
suggestive, la scena dell’addio fra Ettore e Andromaca svolta dal pittore in
numerose versioni. Qui Ettore quanto Andromaca sono privi di viso, sostituiti
dal noto ovoide, i loro piedi sono sottili e ricordano quelli appunto dei
“mannequins”.
Credo,
che la migliore frase che si addica a questo straordinario artista vicino per
grandezza solo a Pablo Picasso sia quella di peintre du mystère laïc che il drammaturgo francese Jean Cocteau scrisse proprio
riferendosi a de Chirico. La frase può essere intesa solo
nell’accezione medievale italiana, quasi come una sintesi scenica rimane un’essenziale
“narrazione” in cui la realtà non sia negata ma assunta nella superiore
veridicità spirituale dell’astrazione e dell’arte.
Appunti d'Arte © 2011 Barbara Rossi
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