Quest’anno, in occasione della ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, l’Ottocento artistico è stato rispolverato un po’ in tutte le Regioni e in alcuni luoghi anche con un certo orgoglio e campanilismo!
Ad Arezzo presso il Museo Statale d’arte Medievale e Moderna, come si vede brevemente nel video, è stata l’occasione come dico sempre “di far parlare i quadri”. La sala presenta una rassegna di opere, molti i ritratti e gli autoritratti di artisti che a metà Ottocento hanno contribuito alla storia culturale della città. Tra i tanti è da ricordare l’autoritratto del padre del Neoclassicismo in pittura: Pietro Benvenuti, oppure il busto in marmo del Conte Vittorio Fossombroni (il famoso economista e uomo politico aretino che progettò e realizzò la bonifica della Valdichiana), eseguito dallo scultore Lorenzo Bartolini.
Una quadreria insomma che a prima vista si apprezza per l’opera “ben fatta”, ma che rappresentando una produzione artistica locale minore, molto spesso per i non addetti ai lavori, se pur con una galoppante sindrome di Stendhal in atto, trova difficile sciogliere quei nodi che il tempo legato alla storia dell’uomo, inesorabilmente getta nel più profondo dell’oblio.
Opere come nel caso dei ritratti che paiono a prima vista fossilizzati in una fisiognomica atemporale, volti giovanili alcuni al massimo della loro carriera, altri che con le loro espressioni sembrano ammiccarci prepotentemente qualcosa di particolare … sicuri che noi sappiamo!
Rispolveriamo dunque il tempo perso magari al chiuso della biblioteca Comunale, cullati dal fatto che l’edificio è un bell’esempio di architettura aretina medievale e rinascimentale, costruito dall' accorpamento dei palazzi, esistenti fin dal 1200, delle nobili famiglie guelfe Albergotti, Lodomeri e Sassoli. Che dire poi del prezioso tempo scandito dai rintocchi della Pieve che, a seconda della nostra ricerca, ci sembrerà un suono duro se ci troviamo calati in un autunno rinascimentale, quando il popolo aretino si armava in Fortezza contro i fiorentini, oppure da un piacevole rintocco quasi da Grand Tour, magari immaginando il pittore Pio Ricci intento a raffigurare il quadro dal titolo “Le opere della Fraternita dei Laici” ,con sullo sfondo la Pieve, opera all’interno della sezione dell’Ottocento.
Ma iniziamo da un quadro e dal suo artista Carlo Ademollo, che ha da poco spento le candeline e che per l’occasione di questa giornata particolare è stato festeggiato anche dai discendenti della famiglia Ademollo.
Carlo Ademollo (1825-1911), artista fiorentino nipote del pittore milanese Luigi (di quest’ultimo si ammirano gli affreschi all’interno della Cappella del Conforto nel Duomo di Arezzo), iniziò la sua carriera formativa presso l’Accademia di Firenze sotto la guida di Giuseppe Bezzuoli, celebre esponente toscano della pittura di stampo storico – letteraria romantica.
All’inizio degli anni Cinquanta è già un affermato pittore tradizionalista di scene di genere e di paesaggi; assiduo frequentatore del noto Caffè Michelangelo, non aderì tuttavia al movimento dei Macchiaioli, anche se prese parte nel ‘52 alla decorazione delle pareti di una delle sale, con una scena di storia che raffigura la Disfida di Barletta.
Nel 1854 si reca con i pittori Altamura, i fratelli Markò, Gelati, De Tivoli e altri nella campagna senese intorno a Staggia per dipingere all’aperto, dando il via alla cosiddetta “Scuola di Staggia”.
Appartenente a una famiglia di opinioni liberali (sette dei suoi cugini aderiscono alla campagna di guerra del 1848 come volontari), nel 1859 si arruola anche lui alla seconda guerra di indipendenza e nel 1866 lo ritroviamo come aiutante del comandante della Guardia Nazionale Toscana, carriera che gli valse nel 1866 la nomina dal re di pittore d’Armata.
Dopo aver seguito a proprie spese l'esercito operante nella campagna del 1859, mantenne una fitta corrispondenza coi personaggi coinvolti nei vari avvenimenti, domandando loro e ricevendone parecchi particolari che gli servirono per dipingere i suoi quadri. Tali particolari si resero utili al pittore nel medesimo anno, in occasione del concorso indetto a Firenze dal governo provvisorio – intitolato a Bettino Ricasoli, ministro dell’Interno – che intendeva incoraggiare la pittura di storia in tutti i suoi possibili soggetti; si proponeva l’abbinamento tra due monumentali dipinti rappresentanti episodi contemporanei relativi all’annessione della Toscana al Piemonte, e due dedicati invece al passato con soggetti storici. Il settore destinato a suscitare maggiore interesse ed emulazione fu quello dei “quadri di battaglie”, con i pittori chiamati a celebrare le giornate di Curtatone, Magenta, Palestro e San Martino. All’esame dei bozzetti presentati, sarebbe seguita la premiazione e la commissione al vincitore di un dipinto di grande formato. Il fiorentino Nicola Senesi, per ragioni che non conosciamo, non consegnò mai il quadro relativo a San Martino e al suo posto fu coinvolto Carlo Ademollo, che eseguì nel 1865 una tela monumentale e di successo, oggi nella Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze, che rappresenta appunto la battaglia di San Martino. Già nel 1859 Ademollo si era servito del medesimo soggetto per rappresentare opere come La “Contracania” a San Martino dopo la battaglia, oggi alla Galleria d’arte Nazionale moderna e contemporanea di Roma o La posizione di Solferino dal lato del camposanto assaltato dai francesi, appartenente alla Società Solferino e San Martino.
Nel 61’ all’Esposizione Italiana, tenutasi a Firenze, l’artista presenta tre tele con la storia di Anna Cuminello:
Anna Cuminello forzata ad attingere acqua, 1861, olio su tela, Firenze, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti,
Anna Cuminello trovata morta il giorno dopo la battaglia di San Martino, 1861, olio su tela, Firenze, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti
Anna Cuminello uccisa nella battaglia di San Martino,1861, olio su tela.
Quest’ultimo dipinto che prendiamo in esame è quello custodito al Museo Statale di Arezzo per acquisto diretto dall’artista e compare nella collezione fin dal 1882.
Firmato e datato in basso a sinistra, l’opera propone il tema eroico delle battaglie risorgimentali, l’attacco compiuto il 24 giugno del 1859 descrive la più grande battaglia mai combattuta dopo quella di Lipsia del 1813, avendovi preso parte oltre 230.000 effettivi disseminati sulle alture di Solferino e di Cavriana. In realtà si trattò di un insieme di battaglie distinte che si svilupparono autonomamente e quasi simultaneamente su un fronte di oltre 20 km, e che interessarono le zone di Medole, Pozzolengo, Solferino e San Martino.
Sta di fatto che se in seguito i combattimenti furono ricordati come premessa dei primi concreti passi verso l’unità nazionale italiana, non di meno il pensiero va alla frequente riflessione per essere stato l’eccidio più sanguinoso, mai visto a quel tempo. Fu lo svizzero Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa Internazionale, rimasto sconvolto dalla disorganizzazione dei soccorsi e di conseguenza dall’abominevole carneficina lasciata sul campo, a scrivere e a pubblicare a sue spese Un souvenir de Sòlferino, libro che riporta un resoconto dettagliato sulle atrocità di una guerra quanto mai scellerata.
Il quadro, esposto nella Sala XIII è dipinto a caratteri vivaci, tratteggia con efficacia nel dettaglio, il violento e cruento corpo a corpo tra gli austriaci e i giovani patrioti italiani appartenenti all’esercito franco-sardo, ponendo fine alla seconda guerra di indipendenza italiana.
Come riportano le fonti, quel giorno fu attraversato da repentini cambiamenti atmosferici, dal caldo soffocante registrato fin dalle prime ore del mattino, cioè dal momento dell’avvistamento da parte delle truppe rivali, ad una pioggia scrosciante nel tardo pomeriggio, che provocò la ritirata degli avversari rimasti impantanati nei fossati.
Qui in particolare è raffigurato il fianco di un casolare o cascina semi diroccata che sta andando a fuoco, tutt’intorno alla scena aleggia polvere stemperata alla luce di una calda mattinata di giugno, una luce sulfurea ed opaca che avvolge il contorno della scena lasciando libera la parte in cui è ritratto il soggetto dell’opera: il corpo riverso di Anna Cuminello, la popolana costretta dagli austriaci ad uscire per prendere acqua e rimasta uccisa da un colpo di fucile, giace sulla destra del dipinto. In realtà il pittore si serve proprio di questa particolare luce per concentrare l’occhio dell’osservatore sulla figura della donna accasciata accanto al pozzo e di conseguenza restituendo alla scena maggiore drammaticità.
Anche se la luce limpida e il nitore delle immagini lo apparentano all’arte dei Macchiaioli attivi a Firenze in quegli anni, non fece direttamente parte del loro sodalizio. Così come nella ricerca compositiva l’Ademollo ha un interesse per le scene di battaglia prevalentemente descrittivo, differente da quello più umano e sociale di Giovanni Fattori.
Forse convengo con altri storici una certa influenza dell’artista con la pittura napoletana contemporanea, unita alla produzione storica francese di Delaroche, di cui imita il contenuto illustrativo che colpisce e coinvolge lo spettatore e gli elementi formali di forti contrasti di luce e colore.
E’da ricordare inoltre che quest’ultima composizione è associata anche ad un altra opera, in particolare l’Ultimo assalto esposta a Villa Glori sede del museo del risorgimento di Firenze.
La scelta del pittore di trasferire su di un soggetto di stampo popolare un vibrante patetismo, fa dell’opera il bersaglio di critiche feroci da parte dei macchiaioli e soprattutto di Telemaco Signorini che così scrive nel 1867:
“Tutte queste vittorie politiche che dipinge l’Ademollo, tutti questi esempi d’amor patrio in pittura, mi son venuti un po’ a noia, perché non trovo gran merito a fare i quadri liberali quando non v’è pericolo, e quando son liberali perfino i Codini. Mi pare che questa arte faccia la corte a tutti come le donne pubbliche, mentre che se l’arte ha uno scopo è certamente quello di precedere e non di seguire i tempi”.
Così replica Ademollo il 23 febbraio dello stesso anno:
“Io non ho mai adoperato l’arte per corteggiare o l’uno o l’altro, faccio la corte, se così posso esprimermi, alla Storia. Antepongo l’Arte che educa, che parla al cuore, a quella che è oziosa, stupida e volgare”.
(Crf. Telemaco Signorini. A proposito del Quadro del sig. Ademollo (Dialogo), in “Gazzettino delle Arti del Disegno”, I, I gennaio 1867, p.7; vedi anche Silvestra Bietoletti, Ademollo Carlo, in La Pittura in Italia, cit: II, p. 656)
Del resto molti artisti che, come il pittore, frequentavano il Caffè Michelangelo si erano arruolati nell’esercito come lo stesso Signorini, ma la polemica innescata tra i due mette in evidenza la loro diversa prospettiva artistica. Signorini è uno sperimentatore sia nella scelta dei temi (non a caso abbandonerà presto il soggetto della battaglia che pur gli aveva procurato un certo successo) sia nella stesura pittorica, che appare vibrante, a palpiti nervosi di luce, tale da suscitare un sottile coinvolgimento sentimentale. Tuttavia per gli artisti del Caffè Michelangelo l’arte è indipendente dai soggetti trattati, che vengono considerati “più da un punto di vista eminentemente formale, come un problema di volumi, di colore, di luce.
A questo riguardo in sala si trovano alcune opere che ci aiutano a capire tali differenze di:
Telemaco Signorini “Piazza Cavour a Portoferraio”,1888-89, olio su cartoncino
“Via de’ Malcontenti sotto la pioggia”,1887 ca., olio su tavola
“Veduta di Arcola in Lunigiana”, olio su tela incollato su cartoncino, proveniente dalla Galleria dell’Accademia di Firenze è datato intorno al 1880
di Giovanni Fattori “Cavalleggeri in perlustrazione”, 1880-90, disegno acquarellato a china; infine di Luigi Gioli esponente del naturalismo toscano, l’acquerello intitolato: “Artiglieri”
Per quanto riguarda la verità storica di questo evento, un’accurata rilettura delle fonti è stata condotta dalle studiose Daniela Sogliani e Maria D’Arconte, che hanno proposto una nuova versione circa la donna che perse la vita presso la cascina Selva, nel tentativo di dare conforto ai feriti della battaglia che secondo le stesse fu erroneamente identificata in Anna Cuminello detta la “sposetta”. Di lei infatti non c’è traccia nel registro dei morti dell’archivio parrocchiale di Rivoltella, nel cui territorio avvenne lo scontro di San Martino, mentre è conservato il nome di una certa Fortunata Sposetti, vedova, che muore effettivamente il 24 giugno 1859 in circostanze analoghe. Suffraga la tesi che il vero nome della donna fosse Fortunata Sposetti e non Anna Cuminello una lettera del municipio di Rivoltella in cui viene richiesto un sussidio per i due figli orfani della donna, dopo la sua morte (Archivio Comunale di Rivoltella, B.A. 0058). In questo documento viene precisato inoltre che la donna ha 45 anni e non è pertanto nel fiore della sua giovinezza come appare nei dipinti di Ademollo o come si legge nella lapide a lei dedicata nel 1959 a Rivoltella.
L’equivoco nasce forse dal vero cognome della donna, Sposetti, probabilmente confuso con l’appellativo “sposetta”, ma tutto ciò ancora non chiarisce chi fosse realmente Anna Cuminello. Anche da questo rebus si desume come l’artista si cali nel raccontare la storia pietosa di una giovane vittima innocente provocando così una certa commozione nel pubblico più conservatore dell’esposizione fiorentina, sollecitazione di cui la critica artistica è ben consapevole.
Così scrive Pietro Selvatico in merito alla mostra del 1861:
“E il popol nostro guarda di preferenza ciò che comprende, ciò che lo commuove. Quindi meglio comprendendo, e più sentendosi commosso, da ciò che si lega alla propria vita, alla vita del giorno, s’innamora delle tele che gliene offrono evidente l’immagine. Ecco perché lo si vedeva, a Firenze, fermarsi estatico dinanzi a dipinti che lo attestavano forza e nerbo di una grande nazione; ecco perché s’accalcava continuamente numeroso, dinanzi a recenti battaglie gloriose, ad eroiche temerità, a titaniche audacie che gli ricordavano il padre, il fratello, il figlio, la Patria” (Selvatico 1862,p.14).
Così scrive Pietro Selvatico in merito alla mostra del 1861:
“E il popol nostro guarda di preferenza ciò che comprende, ciò che lo commuove. Quindi meglio comprendendo, e più sentendosi commosso, da ciò che si lega alla propria vita, alla vita del giorno, s’innamora delle tele che gliene offrono evidente l’immagine. Ecco perché lo si vedeva, a Firenze, fermarsi estatico dinanzi a dipinti che lo attestavano forza e nerbo di una grande nazione; ecco perché s’accalcava continuamente numeroso, dinanzi a recenti battaglie gloriose, ad eroiche temerità, a titaniche audacie che gli ricordavano il padre, il fratello, il figlio, la Patria” (Selvatico 1862,p.14).
© Barbara Rossi
Per le fonti bibliografiche ho consultato:
Il Museo statale d’arte medievale e moderna in Arezzo a cura di A. M Maetzke, Cassa di Risparmio di Firenze,1987, Arti graf. Giorgio e Gambi, Firenze
Dai Lorena all’Unità d’Italia: schede per un itinerario ottocentesco nel museo, a cura di Enrico Colle, Museo Statale d’Arte Medioevale e Moderna, sezione didattica, Arezzo, 1989, editoriale donchisciotte
La Battaglia di Solferino e San Martino. Arte, Storia e Mito a cura di Daniela Sogliani, 2009, Officina Libraria, Milano
La Battaglia di Solferino e San Martino. Arte, Storia e Mito a cura di Daniela Sogliani, 2009, Officina Libraria, Milano
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