sabato 17 settembre 2011

Aung San Suu Kyi e la legittimità ritrovata

Nel numero di agosto 2011 il National Geographic ha riportato un articolo scritto da Brook Larmer sulla condizione del Myanmar, di cui recentemente ho dedicato l'intervista alla professoressa Cristina Morra, in occasione della pubblicazione del suo libro ad Arezzo. Oltre ad aggiornarvi e a dare un quadro più completo sulla storia di questo popolo, postandovi alcune considerazioni dell'autore, vi ricordo le date passate e presenti della presentazione del libro:

Emozioni visive dalla Birmania di Cristina Morra
Immagini di un viaggio in Myanmar un paese bello e sfortunato

21 luglio             Bagni Paolieri di Quercianella (costa degli etruschi) Livorno
29 settembre     Spazio  MONDOLIBRI   Via G.A. Papio, 10   Salerno
26 novembre     Libreria  INTERNAZIONALE  Via Scarlatti, 46  Napoli

Myanmar, nel paese delle ombre

Il Myanmar è un paese pieno di ombre, un luogo in cui anche la domanda più innocente può apparire carica di intenzioni segrete. Per quasi tutta la metà del secolo scorso, questa nazione di quasi 50 milioni di abitanti, in maggioranza buddhisti, è stata plasmata dal potere - e dalla paranoia - dei suoi leader militari. Il Tatmadaw, l'esercito, è stata l'unica istituzione capace di imporre la sua autorità su un paese che, dopo aver ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna, appariva diviso. Ci è riuscito, in parte, costringendo il Myanmar in un terribile isolamento, dal quale solo adesso il paese sta cominciando a emergere.
L'isolamento, aggravato da vent'anni di sanzioni economiche dell'Occidente, ha forse preservato l'immagine nostalgica di un paese congelato nel tempo, con i laghi avvolti nella nebbia, gli antichi templi e la mescolanza di culture tradizionali ancora non contaminate dal mondo moderno. Ma ha anche contribuito ad accelerare il declino di quello che una volta era delimitato "gioiello dell'Asia". Il sistema sanitario e quello scolastico sono stati distrutti, mentre le forze armate - che contano circa 400 mila soldati - prosciugano quasi un quarto del bilancio nazionale.
Come purtroppo è noto, la repressione brutale delle ribellioni etniche e dell'opposizione civile da parte del Tatmadaw  ha fatto diventare l'ex Birmania un paese emarginato, una condizione da cui adesso sembra ansioso di uscire.

Da questo scenario oscuro comincia a filtrare qualche debole raggio di luce. Le prime elezioni parlamentari in vent'anni, tenute lo scorso novembre, hanno annunciato l'avvento di quella che i leader militari chiamano la "democrazia dalla fiorente disciplina". Nonostante i brogli e le intimidazioni, le elezioni hanno dato al Myanmar il suo primo governo nominalmente civile, in cinquant'anni. Than Shawe, l'uomo forte dell'esercito, si è ufficialmente dimesso ad aprile, anche se il nuovo presidente non è altri che il suo fedele vice, l'ex generale Thein Sein, che ha smesso l'uniforme per indossare abiti civili. Con le elezioni il regime si proponeva di conquistare legittimità in patria e all'estero, ma anche di cancellare il ricordo delle elezioni del 1990, tenute due anni dopo che il Tatmadaw aveva ucciso centinaia di manifestanti antigovernativi; di fronte ai risultati, la giunta negò la vittoria schiacciante del principale partito d'opposizione, la Lega nazionale per la democrazia (NLD). Poi, per gran parte dei successivi vent'anni, ha tenuto in prigione i principali rappresentanti dell'opposizione e ha costretto agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, leader del partito.
La Signora, come viene chiamata, ha spinto l'NLD a boicottare il voto di novembre, a cui lei, all'epoca ancora agli arresti, non ha potuto partecipare. Aderire a un'operazione tanto iniqua, sosteneva, avrebbe dato legittimità a un regime che nel 2007 era ricorso di nuovo a efferate violenze, sparando sui monaci buddhisti che protestavano, e un anno dopo avevano abbandonato a se stesse le vittime del ciclone Nargis. Quella catastrofe ha provocato circa 140 mila morti e quasi un milione di persone ha perduto la propria casa. Non tutti erano d'accordo con Suu Kyi; alcuni esponenti dell'opposizione ritenevano che la transizione verso un governo civile, per quanto imperfetta, rappresentasse l'ultima speranza di poter intervenire sul destino del paese.
Meno di una settimana dopo le elezioni del 2010, mentre i partiti sostenuti dall'esercito proclamavano la loro schiacciante vittoria, si è acceso un altro barlume di speranza: Suu Kyi è stata rilasciata. A 65 anni la Signora, premio Nobel, aveva trascorso 15 degli ultimi 21 anni da detenuta; tutto il mondo ha celebrato la sua liberazione. L'immagine della Signora circondata da una folla di giovani sostenitori ha spinto molti a pensare che fosse arrivata l'alba di una nuova era. Ma Suu Kyi non si illude. "La società è cambiata enormemente", ha dichiarato, stupita dalla diffusione di telefoni cellulari, Twitter e Facebook, quando l'ho intervistata a febbraio. "Ma dal punto di vista politico non c'è alcuna differenza con il passato".
Sarebbe facile leggere la storia del Myanmar come un racconto allegorico, una battaglia tra luce e oscurità.
Ma la Signora e i generali non rappresentano gli unici poli che si scontrano per il futuro del paese. Nei ranghi dell'esercito e dell'opposizione ci sono voci, in sordina, che reclamano riforme e una maggiore flessibilità. Al di là di questo scontro fra élite, bisogna tener conto delle minoranze etniche, che costituiscono quasi un terzo della popolazione e occupano più della metà del territorio. Come controllare questo mosaico di gruppi irrequieti? Qualsiasi progresso reale dovrà tenere conto delle loro istanze. "Lasciar fuori dall'equazione i gruppi etnici significherebbe distruggere il paese", ha affermato un diplomatico straniero.
La posta in gioco per il futuro del Myanmar è più alta che mai, anche perché il paese - incuneato tra Cina e India - ha riacquistato importanza nello scacchiere geopolitico. Anche se gli Stati Uniti e altri governi occidentali continuano a imporre sanzioni per punire il regime che viola i diritti umani, Cina, Thailandia e altri stati asiatici concorrenti hanno riversato molto denaro in Myanmar per sfruttarne le risorse, tra cui petrolio e gas, legname, gemme, minerali ed energia idroelettrica. Gli investimenti stranieri, che ammontano a diversi miliardi di euro l'anno, hanno attutito l'impatto delle sanzioni ma hanno alimentato le tensioni in alcune aree particolarmente ricche di risorse. La morsa del regime sul paese, la paura e la paranoia non sono state scalfite. Ma finalmente il Myanmar sta per uscire dall'ibernazione.
Anche se ha riottenuto la libertà, Suu Kyi sembra ancora legata da catene invisibili. Su questa donna simbolo non grava solo il peso di grandi aspettative. Il suo partito è in una sorta di limbo. Messo fuori legge per aver boicottato le elezioni dello scorso anno, l' NLD corre il rischio di violare le severe norme in materia d'associazione tutte le volte che indice una riunione. Anche con la manifestazione della Giornata dei bambini "stiamo sfidando le regole", dice Win Htein, uno dei più stretti collaboratori di Suu Kyi.
Per anni le vignette pubblicate sui mezzi d'informazione governativi hanno dipinto l'elegante Signora come un orco cattivo con tanto di zanne, nutrito dalle elemosine degli occidentali. Per qualche mese, dopo il suo rilascio, gli attacchi sono cessati, ma quando a febbraio l' NLD ha rilasciato una dichiarazione in cui difendeva le sanzioni occidentali contro il regime, su un quotidiano ufficiale, il New Light of Myanmar, è apparso un editoriale in cui si mettevano in guardia Suu Kyi e il suo partito contro una "tragica fine". Pochi hanno dimenticato l'assalto alla sua scorta, avvenuto nel 2003, che causò la morte di almeno una dozzina di sostenitori.
Le sanzioni potrebbero essere una delle ultime carte da giocare per Suu Kyi. Molti osservatori internazionali, incluso il segretario di Stato americano Hillary Clinton, hanno giudicato inefficaci le sanzioni, soprattutto perché altri paesi come la Cina non hanno scrupoli a fare affari con il regime. "Siamo disposti a scendere a compromessi", insiste la Signora. Ma dopo vent'anni di sacrifici se non a fronte di importanti concessioni, a partire dal rilascio degli oltre 2.000 prigionieri politici. "Se le sanzioni non hanno effetti negativi, perché il regime e i suoi sostenitori non vedono l'ora che siano abolite?", chiede con tono malizioso. A quanto pare il governo desidera conquistare l'unica cosa che non ha mai posseduto e che invece la Signora ha: la legittimità agli occhi del mondo.
Brook Larmer vive a Pechino ed è l'autore di Operation Yao Ming.

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