Rimarrà aperta fino al 22 luglio nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze, la mostra ideata da Luca Massimo Barbero dal titolo: Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano.
Una
carrellata di ottanta opere, che hanno come scopo specifico, quello di
ripercorrere i tratti salienti che hanno caratterizzato il panorama italiano, dall’Unità
d’Italia agli anni della contestazione sessantottina. Una storia visiva composta
da opere, video e installazioni dei principali artisti, che hanno apportato con
al loro ricerca, quel cambiamento di gusto, di genere e di costume espressi
nell’arte, nel cinema, nella moda, nella cronaca, nella politica della società
italiana.
Inizia
il percorso il grande quadro con La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955), del realista
Renato Guttuso. Un’opera inerente all’Italia del Risorgimento, che sta a
simboleggiare un secondo rinnovamento identificato nel secondo dopoguerra. Subito dopo Il comizio (1950) di Giulio Turcato (che
poi è l’emblema della mostra), fu una tra le opere che andarono in mostra nel
1948 a Bologna nella “Prima mostra nazionale d’arte contemporanea”, suscitando
scandalo e aprendo un aspro dibattito sulle pagine dei giornali. Palmiro
Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano su Rinascita parlò
di “cose mostruose, scarabocchi”. In realtà l’arte moderna, in quel periodo,
iniziò a prendere strade diverse. Staccandosi da un figurativo non più
funzionale per quell’epoca, si avviava verso una nuova interpretazione del
culto delle immagini e dei contenuti, racchiusi nel simbolo, e adesso studiato
in funzione metalinguistica. Parte da qui la ricerca di Giulio Turcato, il cui frammento
ideale contenuto nel simbolo, non è altro che l’espressione in forma
triangolare delle bandiere con il loro svettare fino agli estremi lembi della
superficie della tela, così come gli striscioni bianchi che vi si frappongono
orizzontalmente e le linee curve e ondeggianti che lasciano intendere la
presenza di migliaia di persone. Gli fa eco Stars,
l’opera di Franco Angeli, su cui riproduce (come se fossero tanti stampi
in una volta che assomiglia ad un firmamento) la falce e il martello, logo realizzato
qualche anno prima da Guttuso per il Partito Comunista. L’opera ricca di
significati, si moltiplica nel segno, mostrando anche la non estraneità
dell’artista ai fatti americani intorno alla nascente pop art Warholiana. Il
quadro battuto dalla casa d’aste Sotheby’s
di Milano nel 2016, ha totalizzato il record di 87,000 euro.
Attraversando
il provocatorio collage su stoffa, Generale
incitante alla battaglia di Enrico Baj e il decollage sul volto di Benito Mussolini, L’ultimo Re dei Re di Mimmo Rotella, lo spettatore viene introdotto
al tema dell’esistenzialismo che si delinea con forza nella grande tela Scontro di Situazioni ’59-II-1 (1959) di
Emilio Vedova e nel Concetto Spaziale,
New York 10 di Lucio Fontana. Si
susseguono poi la serie di linguaggi di grandi dimensioni con le opere di
Burri, Fontana, Vedova Leoncillo e Colla; fino a che l’osservatore passa poi
alla sala dedicata agli anni del miracolo o del boom economico; un periodo
di trasformazione profonda e quindi di cambiamento della società italiana. Un
passo in avanti viene fatto anche nella ricerca di nuovi materiali come il “Moplen”,
simbolo di modernità, ma anche la plastica insieme a bende, tele cucite,
vinavil e cibo, concorrono alla creazione del ruolo espressivo artistico. Una
sala completamente bianca, introduce lo spettatore alla pittura monocroma, ricerca che sta ancora una volta ad indicare
l’azzeramento delle esperienze precedenti da parte degli artisti. E così accanto
alle tele estroflesse di Agostino Bonalumi, si alternano opere di Lorenzo Viani,
Pietro Consagra e di Piero Manzoni. Di quest’ultimo segnalo l’opera della serie
degli Achrome, formata da una
superficie bianca di gesso o di caolino che non manifesta alcun significato, né
esibisce una manipolazione della materia. In questa opera immergendo delle
rosette di pane nel pigmento bianco, l’artista accosta il concetto di
consumismo a un forte valore simbolico: il pane può infatti essere visto come
il prodotto-merce per eccellenza ma, allo stesso tempo, le rosette immerse nel
bianco rimandano a valori sacrali e spiritualistici (l’eucarestia, per
esempio). Tra pop art all’italiana e arte
concettuale si annoverano le opere di Sergio Schifano, materiali fatti con
la carta o il cartone, utilizzate in veste di cartellone o “billboard”. Ed è
proprio da una sagoma in forma di cartellone “monocromo”, che scaturisce
l’immaginazione del pittore, che associata a quella di uno schermo, aggiungerà
via via nel tempo delle lettere, dei segni o delle immagini. Sono particolari
del paesaggio e non, che costituiscono quel viaggio della memoria sopra le
immagini che l’individuo vede o che ha visto nella vita quotidiana e che adesso
l’artista ha il compito di farne emergere l’essenza al suo stadio germinale.
Un’indagine, che si allinea alla ricerca percettiva, di grande attualità in
quel periodo, e che si pose come anello di congiunzione tra l’optical art (disciplina che tese ad
analizzare la percezione nelle sue strutture) e la pop art (corrente che cercò
di verificare il ruolo attivo della percezione nei contatti con la realtà
oggettiva). Schifano ne abbina le due estremità attraverso la pittura e
l’obiettivo, trasferendo nei suoi quadri una visione fotografica, nel senso del
taglio, della sequenza e dell’inquadratura. Concludono le esperienze cinetiche
e programmate l’installazione Eco
(1964-1974) di Alberto Biasi, lavoro interattivo e immersivo realizzato per
celebrare il decennale dalla dissoluzione del Gruppo N. La fine del percorso vede un “cortocircuito” scandito da
esponenti dell’arte povera come
l’iconicità della Mappa del Mondo
(1971-1973) di Alighiero Boetti oggi più che mai attuale, i risultati di
Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini e Tentativo
di volo (1970) di Gino De Dominicis, che diventano la testimonianza e
l’introduzione a un’Italia che parla un linguaggio internazionale e che mira a
divenire un punto di riferimento anche al di fuori dei suoi confini. Rovesciare i propri occhi (1970) di
Giuseppe Penone chiude la mostra in modo emblematico, rappresentando una
nazione che guarda a se stessa e alla sua storia mentre entra in un periodo di
forte polemica che diventerà anche lotta armata.
Appunti d'Arte©2011 Barbara Rossi
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