Alla luce delle nuove tematiche che il mondo sta affrontando.
Ho ritenuto interessante recensire il libro della Prof.ssa Cristina Morra inerente a tali problematiche.
Il testo è stato segnalato, per la saggistica, al Premio Internazionale TULLIOLA – 2009 -
Giovedì 7 novembre 2019
alle ore 18.00 ad Arezzo
presso Verde ACQUA BY
POUREAU, via Lorenzetti 64/66
TAVOLA ROTONDA.
Incontro con la Prof.ssa Cristina Morra, geografa, autrice del libro
Interverranno:
Dott.ssa Barbara Rossi,
moderatrice, storica dell'arte e curatrice di eventi
Dott.ssa Maria Letizia
Puzzella, economista, gestore de L'ALVEARE
GIOTTO di Arezzo
Ci sono due modi per
definirla: mondializzazione e globalizzazione, caduto in disuso il primo
termine, di origine francese, prevalendo nettamente quello di matrice
anglosassone, ossia globalizzazione. È un’interrelazione stretta tra i vari
paesi del mondo di vario livello, di relazioni reciproche in vari campi, ma soprattutto
conosciuta nel mondo dell’economia.
La situazione a cui
siamo arrivati è conseguenza di un processo lentissimo, durato secoli, che ha
dato origine a una prima e a una seconda globalizzazione. Adesso siamo nella
nuova globalizzazione che si è andata affermando a partire dalla fine degli
anni Settanta del XX secolo.
Globalizzazione intesa come omologazione
della società e del costume?
Se noi passiamo in
rassegna le fasi che hanno portato alla situazione attuale, partendo dai secoli
scorsi, vediamo che l’attuale globalizzazione non è altro che il risultato
finale di due processi. Prima, un processo di europeizzazione del mondo sfociato
nella occidentalizzazione del mondo, di cui parla Serge Latouche e che è
conseguenza dell’espansione coloniale europea, poi l’americanizzazione del
mondo, iniziata tra la prima e la seconda guerra mondiale, e divenuta imperante
dopo la seconda guerra per cui gli Stati Uniti sono diventati il simbolo
dell’occidente.
Vediamo che in
questa occidentalizzazione entra anche un altro paese: il Giappone.
In che senso si parla di vecchia e nuova
Globalizzazione?
La vecchia
globalizzazione è un fenomeno che si è verificato in concomitanza di due
presupposti. Le nuove scoperte geografiche e cioè l’apertura della via
marittima delle Indie e la scoperta dell’America, avvenute alla fine del XV
secolo e affermatesi da quello successivo; e la conseguenza delle varie forme
di colonialismo europeo con le varie potenze che si sono via via succedute, a
partire dalla Spagna e dal Portogallo e poi dalla Gran Bretagna. Il secondo
presupposto riguarda la prima rivoluzione industriale, che è avvenuta in Gran
Bretagna e poi nel resto dell’Occidente, tra la fine del XVIII e durante il XIX
secolo. Senza questi due aspetti, non sarebbe avvenuta quella che i geografi
chiamano l’apertura del mondo in un unico grande schema. Fino ad allora
esistevano delle aree di influenza di alcune potenze nel corso della storia, ad
esempio l’area mediterranea in cui risiedeva l’impero romano, le Repubbliche
marinare o la Lega anseatica del mar del Nord e del Baltico nel basso Medioevo,
l’impero cinese, la regione dell’America centro-meridionale dei popoli
precolombiani. Bene tutti avevano creato senz'altro delle aree di influenza
politico-economico ma a circuito chiuso. Dobbiamo adesso immaginare che, con le
grandi scoperte geografiche, con il primo colonialismo commerciale, poi quello di
popolamento e di potere (dopo la conferenza di Berlino alla fine dell’Ottocento
con la divisione dell’Africa in territori della Francia e dell’Inghilterra
soprattutto) si è venuto a creare un unico grande cerchio su cui l’Europa
prevaleva. Con la seconda rivoluzione industriale, questo processo si
accentuerà, (la prima rivoluzione industriale è quella legata all’energia del
carbone, la seconda rivoluzione industriale è conseguenza della scoperta
dell’energia idroelettrica, del motore a scoppio e del motore diesel). Quando
si ha la seconda rivoluzione industriale, il commercio mondiale non riguarda
più solamente prodotti tropicali e manufatti, ma anche le materie pesanti, in special
modo i prodotti minerari, su cui le grandi potenze europee metteranno le mani,
dando origine all'industria di base, l’industria chimica e più tardi alla
petrolchimica. Con la seconda rivoluzione industriale, abbiamo la massima
espansione di questa globalizzazione dei mercati, con approvvigionamento di
materie prime lontane e la prevalenza dei prodotti industriali dell’Occidente. Invece,
dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, accadrà un cambiamento che
porterà alla terza rivoluzione industriale che, insieme al fenomeno politico
che spiegherò successivamente, rappresenta l’origine della nuova
globalizzazione.
Con lo sviluppo
degli Stati Uniti d’America, già a partire dagli anni Trenta del Novecento, e
successivamente l’espansione del grande mercato interno americano nonché la
partecipazione sempre più grande degli Stati Uniti agli scambi mondiali di
materie prime e prodotti, si affermerà una situazione di bipolarismo politico,
ossia di divisione del mondo, che dopo la seconda guerra mondiale diventerà
fortissima, sfociando nella guerra fredda, tra il sistema occidentale capitalistico
e neo liberista, capeggiato dagli Stati Uniti e dai partner dell’Occidente nella
Nato, e l’Unione Sovietica, con il modello marxista, uscita rafforzata dal
secondo conflitto mondiale.
Questa situazione
durerà per tutti gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e una parte degli anni
Ottanta, sembrando agli occhi del mondo, una situazione non superabile, che
invece crollerà con il famoso 1989 e la caduta del Comunismo. Questo aspetto è
molto legato alla nuova globalizzazione, perché questa non sarebbe potuta
avvenire se non fosse crollato il sistema marxista, considerato come un
contraltare, rispetto al sistema occidentale. Ma la nuova globalizzazione è
anche figlia della terza rivoluzione industriale, quest’ultima legata all'elettronica e all'informatica e quindi ai progressi dei vecchi calcolatori
elettronici fino a quelli più moderni. Senza questa possibilità di nuove
tecnologie e di decentramento delle produzioni e di rapporti interconnessi,
legati all'uso del computer, non sarebbe potuta avvenire la nuova
globalizzazione, la quale ha un genitore tecnologico ed economico, che è quello
delle nuove tecnologie informatiche e un genitore politico, che è la fine del sistema
comunista. Quindi l’affermazione, dopo il 1989, è che il sistema occidentale
americano legato al libero commercio e al neoliberismo, si trova vincitore.
L’espressione TINA "There
is no alternative" usata da Margaret Thatcher, stava per “dobbiamo
fare per forza così…”: ciò non è vero assolutamente, ma è stato fatto credere; le
conseguenze le vedremo più avanti, intanto basta dire che sono quelle di un
sistema, certamente con tanti aspetti positivi, ma anche con tante ombre e
tanti nodi che stanno venendo al pettine.
Scenari della globalizzazione intesa
come omologazione della società e del costume: ce ne vuoi parlare?
Tutti parlano della
globalizzazione dell’economia ed è certamente l’aspetto prevalente più
evidente. Ma, in realtà, l’attuale globalizzazione ha dei risvolti più profondi,
e direi anche subdoli, che consistono nella globalizzazione ideologica e nella
omologazione dei comportamenti. Secondo i sociologici e i filosofi, è proprio
la globalizzazione ideologica il pericolo maggiore, che è alla base degli altri
caratteri della globalizzazione. Un altro aspetto evidente, e su cui non mi
soffermo, è la globalizzazione dei problemi: se il mondo è interconnesso sempre
di più, vuol dire che ci sono dei problemi che sono diventati generali, quali
quelli ambientali, ad esempio i cambiamenti climatici, le piogge acide,
l’effetto serra, lo sfruttamento irrazionale delle risorse, l’esaurimento dei
combustibili tradizionali, fino all'aumento delle malattie e delle epidemie.
Tutto questo fa parte di problematiche nuove che vanno affrontate e risolte a
livello mondiale. Ma la globalizzazione ideologica porta alla fine del pensiero
critico, creando invece il mito del mercato, per cui tutto si potrebbe risolvere
semplicemente dando un prezzo a persone e cose. Il libero commercio, che è
rappresentato dalla sua organizzazione con l’acronimo OMC, afferma che l’eliminazione dei dazi e gli scambi devono essere
sempre più intensi, dovendo portare a vantaggi reciproci. Si tratta di tesi
immaginarie, visto che in realtà non abbiamo nessun libero commercio. Infatti,
il commercio mondiale è dominato da grossi gruppi finanziari ed economici, come
le multinazionali, le quali hanno veramente libero accesso al mercato,
bloccando la partecipazione dei piccoli produttori; quindi, quando parliamo
della valorizzazione dei prodotti locali, della conservazione delle tradizioni
dei vari paesi, delle culture, tutto viene massificato. Quella massificazione
ideologica si vede nei comportamenti delle generazioni moderne e nasconde il
bisogno di ritrovare le radici ormai perdute.
Giudizi sulla globalizzazione e ipotesi
a confronto: teorie di R. Ikenberry e T. Friedman.
Sulla
globalizzazione, da una trentina di anni, è in corso uno scontro tra la destra
e la sinistra. È vero che il sistema capitalistico neoliberista ha prevalso, ma
prevalere sul piano economico e politico non vuol dire che esso sia nel giusto,
per cui i critici del sistema sono sempre più agguerriti a contestarlo.
Contestazione che risulta sempre più difficile perché le leve, anche del potere
massmediatico e dell’informazione, sono nelle mani dei neoliberisti. Ci sono
però le forze tradizionaliste e di centro destra che enfatizzano gli aspetti positivi
della globalizzazione che hanno portato a delle innegabili conseguenze
positive. Invece il centro sinistra enfatizza le ombre e gli aspetti negativi.
Queste osservazioni, riportate negli incisi del libro, riguardano alcuni
studiosi. Negli Stati Uniti dice Ikenberry, e in altri paesi progrediti, la
globalizzazione è uno sviluppo gradito: essa rappresenta il grande ideale
liberale, dà la possibilità a tanti paesi di mettersi in evidenza, di entrare nell'informazione mondiale come Internet, e nel campo della vendita dei propri prodotti. Tutto
questo è evidente nei paesi emergenti, come la Cina, l’India, il Messico, il
Brasile, non vale invece per i Paesi meno avanzati, i quali stanno sprofondando
sempre di più. Ikenberry dice che la globalizzazione non crea solo vincitori,
ma anche vinti, e il divario economico tra i vari Paesi e pure all’interno di
essi anche nel mondo sviluppato, si è accentuato, evidenziando la povertà. Ne
deriva che la globalizzazione non favorisce tutti i paesi nella stessa misura.
Se invece vogliamo andare a vedere Friedman, egli sostiene che l’integrazione
economica globale è certamente complessa e multiforme, anche se tutto sommato
crea incentivi e limitazioni che rendono meno probabili le grandi guerre. Per
Ikenberry questa affermazione presenta però aspetti diversi, il primo è che la
globalizzazione porta a crescenti standard di vita uniforme, per cui i Paesi coinvolti
hanno sempre più grandi interessi in gioco, tendendo a intensificare le loro
reti di connessione. Ma, l’interdipendenza economica fa aumentare punti di
contatto e di attrito. Si veda recentemente il conflitto dei dazi che la stessa
Organizzazione Mondiale del Commercio ha permesso agli Stati Uniti di apporre sui
prodotti europei.
Aree sviluppate – sottosviluppate. La
ricchezza vista come strumento di accesso e sottosviluppo. Un fenomeno nuovo.
Il problema è
annoso, si entra in una terminologia specialistica che è stata appannaggio di
storici, geografi, sociologi ed economisti a partire dalla metà degli anni
Cinquanta del Novecento, e cioè il concetto di sviluppo e sottosviluppo e come
la nuova globalizzazione si inserisce nel migliorare o peggiorare questa
situazione. Dobbiamo accennare che il quadro mondiale del livello di ricchezza
disponibile pro capite per gli abitanti dei vari Paesi ha subito una serie di
modifiche fortissime negli ultimi cinquant'anni. Oggi non si può più parlare di
un mondo sviluppato unitario e di uno sottosviluppato, altrettanto uniforme. Né
tanto meno di quella che era la ripartizione della fine degli anni Cinquanta,
quando fu coniato il concetto di Terzo mondo, e quindi il Primo mondo quello
ricco e capitalistico di tipo americano, il Secondo mondo quello sovietico
relativo al sistema marxista e il Terzo quello neutrale, ma in gran parte costituito
da Paesi poveri. Questa tripartizione fu superata già quando, negli anni
Ottanta, si disse che il Terzo mondo, quello dei Paesi poveri, si stava
differenziando tra alcuni che sprofondavano e altri che erano in via di
miglioramento. Ma anche questo è superato, perché dagli anni Novanta in poi, in
concomitanza con l’affermarsi della terza rivoluzione industriale e la nuova
globalizzazione, abbiamo avuto uno sviluppo a macchia di leopardo. Vuol dire
che ci sono delle aree di ombra all’interno dei Paesi avanzati, e delle aree
invece di luce e inizio di sviluppo nei Paesi sottosviluppati. Chiariamo
innanzitutto la terminologia dei significati sviluppo e sottosviluppo, il primo
non significa essere semplicemente ricchi e il secondo essere poveri. La cosa è
molto più complessa, perché il sottosviluppo non è la povertà del passato, come
quella rurale di molti decenni fa, oppure quella di tanti paesi soprattutto
localizzati nelle regioni subsahariana, andina o del Bangladesh. Non si parla
di povertà in questo senso ma di una situazione nuova, di una serie di circoli
viziosi di carattere economico, sociale, politico, per cui i Paesi che si
trovano in una grave situazione di arretratezza e di povertà culturale,
tecnologica ed economica e non riescono ad emergere. Questa è la novità che
aggrava la situazione, perché dalla povertà del passato, che era diffusa fino all'Ottocento e in gran parte del mondo compresi i Paesi oggi avanzati, siamo
venuti fuori. Cito gli studi di Yves Lacoste e di Pierre George a partire dagli
anni Sessanta e Settanta dove è risultato che la novità nel mondo, non è stata
la povertà, ma è stato lo sviluppo. Il fatto che alcuni Paesi siano venuti
fuori da questa situazione è dovuto a una serie di circostanze positive come la
prima rivoluzione industriale, la rivoluzione dei trasporti, l’avvento di una
classe intraprendente, quale la nuova borghesia imprenditoriale, uniti ai
sacrifici della classe lavoratrice, la quale ha portato all’affermazione dei
diritti della classe operaia e al miglioramento del tenore di vita. Tutto
questo, che noi chiamiamo sviluppo e che è stato studiato a fondo da molti
esperti, non si può verificare nei Paesi oggi poveri. Per cui oggi parliamo di
un mondo avanzato ma con ombre, e di Paesi emergenti in via di sviluppo che
stanno venendo avanti e dove certamente la globalizzazione dei mercati può
fornire una possibilità, sia negli scambi commerciali sia nel movimento dei
turisti. E l’indice che può realmente misurare il livello, non è fatto dalla
quantità di beni disponibili pro capite, ma dall’indice di sviluppo umano, dove
conta tantissimo l’istruzione e la speranza di vita, che è legata poi alle
condizioni sanitarie del Paese.
Paesi indebitati. Riporto alcuni casi
recenti: Grecia, Portogallo, Spagna.
Questi Paesi si sono
ritrovati con un debito pubblico forte nel loro bilancio, sforando i parametri
dell’Unione Europea, ed è un fatto recente legato a scelte sbagliate, ma anche
a dei parametri piuttosto rigidi che andranno rivisti da parte dell’Unione
Europea. Quando noi parliamo di Paesi indebitati a livello mondiale, noi
dobbiamo riferirci però ai Paesi meno avanzati (PMA): è lì che abbiamo una
situazione tragica, perché con scambio ineguale, pilotato dalle multinazionali
e dall'Organizzazione mondiale del commercio, perché questi Paesi esportano
derrate agricole e materie prime minerarie con scarso valore aggiunto e
importano prodotti finiti, facendo lievitare il loro debito. Tante volte si è
pensato all'azzeramento del debito ma ciò non serve a molto; se non cambiamo
alla radice il sistema, con un aumento del livello culturale e capacità
produttive migliori, dando accesso a un mercato completo, le multinazionali continueranno
a imperare con i loro prodotti.
Deforestazione – caso dell’Amazzonia – Distruzione
della biodiversità. Quale ruolo giocano le multinazionali nei confronti del
cibo?
Qui ci si può
ricollegare alle conseguenze ambientali della nuova globalizzazione: la corsa
allo sfruttamento delle materie prime: vegetali, agricole, minerarie, certamente
si è accentuata non solo per l’aumento degli scambi, ma soprattutto per
l’avvento nel mercato dei Paesi in via di sviluppo; pensiamo alla Cina, all'India o al Brasile. Quindi, le conseguenze sull'esaurimento delle risorse, sull'alterazione degli ecosistemi locali, sul geo-sistema generale, l’inquinamento
dell’aria, dell’acqua e del suolo, fino ad arrivare all'accentuazione dell’effetto serra e ai cambiamenti climatici in atto ormai sotto gli occhi di
tutti, rappresentano un discorso purtroppo grave, ancorché attuale. La
globalizzazione comporta anche la possibilità di prendere coscienza di questo, attraverso
l’informazione.
Ma veniamo al
discorso sul ruolo delle multinazionali. Queste, per esempio nella
deforestazione, hanno delle responsabilità enormi, come ad esempio in Amazzonia.
Da una conferenza che ascoltai nel lontano 1990, di un professore universitario
torinese che ritornava dal Brasile, appresi che si deforestava per fare i
pascoli per gli hamburger della McDonald’s, per cui si coniò l’espressione hamburgerizzazione dell’Amazzonia!!! Non
parliamo poi del taglio della foresta per le autostrade, per la creazione di
piantagioni tropicali, per cacciare i popoli locali, fino ad arrivare agli
incendi recenti: non sappiamo quanto siano stati provocati localmente per
creare spazi e quanto invece siano sfuggiti di mano con l’aumento stesso della
temperatura. Lo stesso discorso è avvenuto anche in Siberia, con incendi dovuti
a temporali e fulmini locali a causa del riscaldamento climatico, e una minore
umidità. Pensiamo poi degli incendi del 2016 accaduti in Indonesia, per fare
spazio alle piantagioni di olio di palma, che crearono una nube tossica, stagnante
sul territorio, che i cicloni e le piogge torrenziali riuscirono a risolvere. Per
cui ci sono le responsabilità delle multinazionali dei minerali, e quelle
legate all'agricoltura, come la Monsanto. Quest’ultima crea i suoi prodotti con
studi di laboratorio, imponendo agli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo,
di comprare il suo pacchetto con le sementi che ogni anno vanno riacquistate perché
fatte in laboratorio, oppure la necessità dei pesticidi, i diserbanti, andando
contro agli interessi per la salvaguardia dell’ambiente e delle produzioni
tradizionali e locali dei popoli.
Nuove forme di organizzazione per
combattere i problemi. ONU – G8.
Quando vogliamo porre
sul tappeto queste problematiche di carattere ambientale e sociale con
l’accentuazione degli squilibri tra aree forti e aree deboli o all’interno
delle varie Nazioni, cerchiamo chiaramente dei correttivi. Questi, per la
salvaguardia dell’ambiente, possono essere anche trovati e messi in atto con
comportamenti virtuosi dei cittadini. Ecco perché occorreranno persone
consapevoli e consumatori critici: se un cittadino si rende conto che i
prodotti standardizzati delle multinazionali del cibo fanno male, oltre che
alla salute, anche al pianeta terra, pensando alla rivalutazione delle
produzioni locali, certamente ciò è da considerare positivamente. Forse,
risulta essere l’aspetto migliore tra le ricadute positive della
globalizzazione il Glocal, ossia la
valorizzazione dei territori locali immessi poi nella rete globale. Parliamo di
una dinamica globale/locale: per fare questo dovremmo conoscere le risorse
locali, avere accesso all'informazione globale, ed avere una grande capacità di
penetrazione commerciale e politica, in sostanza fare del marketing territoriale.
Questo deve avere almeno la compresenza di tre fattori: il cittadino
consapevole e preparato, le associazioni di categoria e la classe politica che
deve sponsorizzare le risorse locali.
Per tornare alla
domanda iniziale, i comportamenti virtuosi o la valorizzazione delle produzioni
locali e la salvaguardia degli ecosistemi, non possono essere attuati solamente
con la buona volontà delle persone, perché, se le multinazionali non smetteranno
di fare quelle alterazioni che portano all'inquinamento di cui ho parlato
prima, non potremo raggiungere una soluzione definitiva. Per arrivare a questo
ci vogliono degli accordi internazionali, per esempio quelli delle Nazioni
Unite per la salvaguardia del clima e degli ecosistemi. Mi riferisco alla
conferenza di Rio del 1992, che ha coniato il concetto di sviluppo sostenibile,
cioè uno sviluppo economico e sociale che sia compatibile con la salvaguardia
dell’ecologia, e con la tutela dei diritti delle generazioni future a mantenere
le risorse. Per fare questo le Nazioni Unite hanno indetto una serie di
conferenze, sui singoli problemi o su problemi generali, fino ad arrivare a
quelli recenti sul cambiamento climatico. Anche se questo tipo di discorso è
mancante di una forza politica, le Nazioni Unite possono fare delle conferenze,
emanare una serie di documenti scientifici e politici, possono incoraggiare i
Paesi ad agire in maniera virtuosa, ma non possono imporre le soluzioni, poiché
non hanno potere politico, tantomeno l’assemblea generale. Le soluzioni sono
lasciate ai politici dei vari Paesi. Il discorso del G8 oppure dell’Unione
europea, ossia di associazioni di Paesi, comincia già ad avere una valenza
diversa. I Paesi del G8, oltre a parlare di scambi, di eliminazione di dazi e
accordi, possono certamente prendere delle decisioni di carattere positivo,
come nel campo ambientale e sociale. Anche se nutro forti dubbi in proposito,
perché sono dominati sempre dall'Organizzazione mondiale del commercio e dalle
multinazionali. Mentre nei riguardi dell’Unione Europea ho delle speranze
perché è stata la prima a parlare del problema climatico e a sponsorizzare,
insieme al Giappone, gli accordi di Kyoto dal 1997 in poi. L’Unione europea
quando prende delle decisioni divengono immediatamente obbligatorie per i Paesi
membri. Ma la cosa più importante da fare è quello di cambiare le regole
dell’ONU. Le Nazioni Unite dovranno avere più voce in capitolo nell'ambito politico: bisogna che le decisioni dei congressi mondiali diventino
obbligatorie per tutti i Paesi membri. Senza una sovranità mondiale su problematiche
ambientali e sociali, cioè senza una governance
internazionale, non potremo mai procedere ad una ristrutturazione delle regole mondiali.
A partire da una
definizione che fu data dal Vaticano all'avvento del XXI secolo, ossia del
Giubileo del 2000, occorre la Globalizzazione della solidarietà. Perché se, per
adesso, è semplicemente enunciata, qualcosa si è mosso, con la nascita del famoso
popolo di Seattle. Le persone che contestarono l’OMC e poi, nel 2001, il G8 di
Genova, presero il nome dei no-global.
La Globalizzazione
della solidarietà dovrà essere uno dei correttivi: su questo Papa Francesco,
nella enciclica sull'ecologia Laudato si’
del 2015, non ha parlato solamente, nella prima parte, di tutti i danni
ambientali che l’attuale sistema porta avanti e dei correttivi da seguire, ma
ha spiegato chiaramente che i problemi ambientali e sociali sono due facce
dello stesso problema. La scelta di fondo dell’attuale sistema è sempre quella
di mettere il profitto al primo posto, attraverso la visione di una economia
consumistica, di sfruttamento e di profitto: ciò è all'origine dei danni all'ambiente e dell’accentuazione degli squilibri fra Paesi ricchi e Paesi
poveri. Quindi la globalizzazione della solidarietà è stata la bandiera del
Vaticano e anche di sociologi ed economisti che spesso non hanno tanto accesso
alle fonti di informazione, perché queste sono in mano alle classi dirigenti.
Contrari e favorevoli alla
globalizzazione. Idee per una nuova e migliore globalizzazione. Il movimento
“New - Global” e il metodo della cooperazione decentrata.
Dopo la contestazione
dei no-global è nato un altro movimento, i new-global, i quali vorrebbero
correggere il sistema e non contestarlo in toto, attraverso la valorizzazione
dei piccoli produttori, tanto che è anche soprannominato la Rete di Lilliput. Occorre dare spazio alle categorie più piccole
di produttori, nel campo delle produzioni commerciali e agricole, ai
consumatori, alle scelte dei gruppi e delle associazioni, e sostenere una nuova
forma di cooperazione come quella multilaterale o decentrata. Questa consiste
nel concordare dei progetti tra associazioni e gruppi sociali dei Paesi
avanzati e in via di sviluppo alla pari, per risolvere i problemi di carattere
scolastico, sanitario, produttivo ecc. Certamente la nuova globalizzazione sta
prendendo piede. Tutto questo potrà sfociare in quella Globalizzazione della
solidarietà, la quale ha bisogno però di un contesto giuridico mondiale che per
adesso manca.
Tesi di Panikkar – E. Balducci – una svolta
nel senso etico.
Su questi aspetti ci
vengono in aiuto gli scritti lasciati da due grandi personalità: lo studioso
indo/catalano filosofo e teologo Raimon Panikkar e lo scrittore toscano Ernesto
Balducci. Panikkar di cultura indiana ed europea contemporaneamente, autore di
quaranta libri, afferma che il sistema attuale economico e politico non sopporterebbe
una trasformazione spontanea dal suo interno, visto che sussistono troppe forze
contrastanti. Dobbiamo trovare altre forme di convivenza e di relazione in forza
della stessa esistenza del sistema, perché non tutto di esso deve essere azzerato
e considerato negativo. Solo noi possiamo avere dei comportamenti virtuosi e
saper fare delle scelte consapevoli, cambiando gli stili di vita, ad esempio nell'uso delle risorse e della salvaguardia dell’ambiente. Ernesto Balducci,
aggiunge un’altra cosa, dicendo che l’uomo prodotto della filosofia occidentale
si trova al termine di una serie di processi che lo hanno messo in pericolo. A
naufragare è proprio il paradigma antropologico – occidentale che ha fatto
coincidere l’identità umana con un processo di trasformazione della terra che
si traduce in dominio. E quindi, secondo lo scrittore, dobbiamo ritornare alla
visione della polis come casa comune, bisogna liberarci da questo delirio di
potenza. Le argomentazioni di Balducci possono sembrare filosofico – religiose
ma in realtà egli si appella a una ragione laica che è anche il prodotto del
paradigma occidentale; quindi una ragione consapevole, aperta al dialogo con la
realtà, potrà risolvere anche i problemi concreti, se ci sarà la volontà
politica e una base di cittadini critici e consapevoli che sappiano fare scelte
politiche elettorali giuste, per lo meno nei Paesi dove vige la libertà di
parola e di espressione, arrivando al circolo virtuoso dello sviluppo
sostenibile: la salvaguardia dell’ambiente potrà favorire lo sviluppo economico
– sociale e questo potrà migliorare la salute degli uomini, garantendo lo
sviluppo sostenibile per le generazioni future.
Cristina Morra
Docente di ruolo di Geografia dal 1977 al 2005 presso Istituti Superiori di Arezzo e provincia.
Abilitata anche in Discipline Turistiche e in Discipline Aziendali.
E' stata membro del gruppo di lavoro ministeriale predisposto dalla Commissione Brocca per la stesura dei nuovi programmi di Geografia per le Superiori, nel periodo 1988/91.
Ha collaborato con L'IRRSAE TOSCANA.
Ha realizzato il Progetto didattico Scuola/ Territorio con il suo Istituto Tecnico Commerciale Buonarroti di Arezzo e il Comune di Arezzo.
E' inserita nel ruolo dei FORMATORI DI GEOGRAFIA, dopo il corso nazionale del M.P.I. nel 2001.
E' socio d'onore dell'A.I.I.G.=ASSOCIAZIONE ITALIANA INSEGNANTI DI GEOGRAFIA, per la quale ha diretto per anni la sezione di Arezzo e collaborato nel Consiglio Nazionale Centrale e nel Consiglio Toscana.
Ha tenuto lezioni didattiche all'Università di
Firenze per le S.I.S.S.
E' da anni docente della UEL=Università dell'Età Libera di Arezzo.
E' socia della SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA di Roma e della SOCIETÀ DI STUDI GEOGRAFICI di Firenze.
Ha collaborato con la Casa Editrice DE AGOSTINI di Milano per l'organizzazione di convegni didattici nazionali geografici.
E' stata autrice della collana di testi scolastici:
L'Uomo organizza il suo ambiente, con la Casa editrice MARKES TRAMONTANA di Milano.
Ha collaborato con Enti, come UCODEP e RONDINE CITTADELLA DELLA PACE di Arezzo e con MANI TESE di Milano, nonché con Riviste come L'Universo di Firenze.
E' autrice, con l'EDITORE LETIZIA di Arezzo, di testi-saggio:
Globalizzati, ma liberi e sviluppati, 2006, segnalato per la Saggistica al Premio Nazionale Tulliola del 2009
Il Pianeta squilibrato, 2012
L'Agricoltura nel mondo,2014
Con lo stesso editore aretino ha pubblicato anche:
Uno sguardo su Arezzo e il suo centro storico,
Emozioni visive dalla Birmania, testo fotografico di viaggio, 2011.
Appunti d'Arte©2011 Barbara Rossi
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